martedì 6 dicembre 2011

Una storia d'amore


L’ho conosciuta una sera al pub. Era una di quelle serate in cui i single (e presunti tali) si scambiano bigliettini con il sesso opposto. Perdonate l’uso dei verbi al passato, ma questa che mi appresto a raccontarvi è la storia della mia ultima storia con una ragazza. Passatemi il gioco di parole.
Decisi di scriverle. Le chiesi cosa facesse nella vita. Le chiesi il suo nome. Le chiesi cosa ci facesse qui. Le chiesi perché mi guardava. Mi rispose: sopravvivo. Mi rispose: Maria. Mi rispose: forse, cercavo te. Mi rispose: forse, volevo te.  Non ho mai capito se fosse ironica.
Osservai i miei capelli riflessi nello schermo del cellulare. Mi passai la lingua tra le labbra e con un dito agguantai la saliva per mandare indietro un ciuffo ribelle. Mi alzai, avanzai verso il suo tavolo e le diedi la mano. Stretta forte e decisa. La guardai negli occhi e le sorrisi. Lei fece altrettanto. In quello stesso istante vidi gli occhi degli altri su di me. Tutti mi guardavano e invidiavano il mio coraggio. Avevo appena fatto ciò che loro, magari dopo mesi o forse anni di questi giochini, non erano mai riusciti a fare. Al primo colpo. Ciò che qualcuno definirebbe “la fortuna del principiante”, io la definirei “una serie di variabili andate a incastrarsi alla perfezione”.  Io direi: forse voi non siete belli quanto me. Voi non siete me.
Parlammo per una decina di minuti, poi le dissi che dovevo andare via, non le diedi alcuna spiegazione. Le lasciai un foglio con scritto il mio numero e la mia firma. Le lettere tendevano ad inarcarsi verso l’alto.
Passarono due giorni e mi chiamò. Uscimmo insieme. Non ricordo precisamente quanto parlammo e cosa ci dicemmo. Ricordo solo cosa mi disse la mattina seguente svegliandosi nel mio letto: ‹‹ Il miglior sesso della mia vita! ››.
Cominciammo a frequentarci. 
Inizialmente aveva dei problemi a indossare gonne e scarpe con i tacchi. Le dissi che con una gonna sarebbe stata più elegante. Le dissi che con gli stivali sarebbe stata più femminile. Le comprai 7 completi diversi e 7 paia di scarpe. Nel periodo natalizio andavamo per centri commerciali a comprare regali. A San Valentino, prenotavamo il tavolo del ristorante più costoso nella zona. Ogni occasione era buona per viaggiare. L'importante era poi ricordarsi di mettere le foto su Facebook. Quel periodo la gente ci guardava e ci indicava come modello da seguire. 
La coppia ideale.
Andavamo a cena fuori nei locali più “in”.  Andavamo in tutti i locali frequentanti dai miei colleghi di lavoro. Lei mi parlava di sé. Non ricordo bene cosa dicesse: io guardavo chi c’era nel locale. Quando la guardavo negli occhi e lei mi parlava, io pensavo alle cose che ancora non avevamo fatto. Mentre lei diceva qualcosa tipo:  ‹‹ stamattina al lavoro mi sono arrabbiata con il mio capo ››, io pensavo a come sarebbe stata bene con il mio uccello ficcato in bocca. Mentre diceva qualcosa tipo:  ‹‹ Avevo intenzione di mettere lo smalto nero ››, io pensavo a come starebbe bene il mio uccello su per il suo culo. Quando incontravo i miei colleghi, mi dicevano di quanto fosse bella e, quando accadeva, io ridevo di gusto e provavo piacere; poi elencavo tutti i suoi pregi, non so se li avesse avuti sul serio. Di certo era giovane, e agli altri piaceva.
La sera, prima di fare sesso, eravamo soliti passeggiare in centro. Durante le camminate le tenevo la mano stretta nella mia. Quando lo facevo, lei poggiava delicatamente la sua testa sulla mia spalla. Non ho mai capito perché lo facesse. Non ricordo di averle mai stretto la mano quando eravamo soli. Non avevamo molto in comune, ma gli altri dicevano che era bella; forse lo era anche per me.
In quel periodo mi piacevano le rose rosse. Fu per questo che decisi di regalarle un tatuaggio con una rosa rossa sulla spalla.
Dopo un anno siamo andati a convivere. Le prime volte era lei a fare la spesa. Era solita comprare dolci. ‹‹ Il cioccolato facilita la produzione di endorfina ›› disse una sera, dopo aver comprato due barattoli di Nutella. Quella fu l’ultima volta che comprò del cibo. Nel mio carrello della spesa c’erano prodotti di soia, integratori vari e, al posto della Nutella, la marmellata di marroni.
Non so se avesse mai avuto hobby, ma decisi di iscriverla nella mia palestra. I primi tempi le dissi che i miei orari di lavoro non combaciavano con i suoi e non potevamo andarci insieme. Quel periodo, per non andare con lei, uscivo due ore prima da lavoro. Nessuno in palestra sapeva che fossi il suo fidanzato. I miei addominali erano di ferro, i pettorali sodi e le spalle attiravano gli sguardi delle donne, soprattutto quelle over 40: le più troie. In quel periodo ricordo di essermene scopata una di quelle over 40 con il seno calato, la pancia ingombrante e il culo flaccido; è successo nella toilette della palestra. Quando quella che io e gli altri definivamo “la mia ragazza” tornava a casa stanca dalla palestra, io mi ero già fatto due seghe pensando ai culi flosci e i seni calati delle signore della palestra. Quando lei tornava, nonostante tutto, io ero a letto ancora con l’uccello duro. Scopavamo per un paio d’ore tutte le notti e le dicevo di urlare affinchè i vicini ci sentissero. Quando lei tornava la osservavo mentre si spogliava, per controllare se ci fosse ancora la pancia.
Quando ha sostituito gli addominali al grasso ho deciso di andare in palestra con lei. Quando il suo ventre ingombrante era sparito, ed era la stagione estiva, andavamo tutti i giorni al mare o in piscina.
Quando incontravo i miei colleghi al mare, io stringevo forte la mano alla “mia ragazza”. Quando incontravo i miei colleghi al mare ci facevano i complimenti per il fisico e l'abbronzatura. Quando, con la mano tesa a simulare una ventata, dicevo: ‹‹ Non sono proprio perfetti i nostri corpi ››, l’invidia si insinuava nei loro sguardi. Era a quel punto che la guardavo negli occhi e le dicevo che la amavo. Non so perché, ma ricordo che quando glielo dicevo mi guardava con gli occhi lucidi. Quando lessi su una rivista di moda, un sito internet e vidi al telegiornale che era il periodo delle bionde, le comprai una tinta. Non fu tanto accondiscendente, ma quando le dissi: ‹‹ Ti amo lo stesso! ››, lei andò in bagno e si fece la tinta.
Non ricordo bene quanto tempo passò, ma compresi che il sesso con lei cominciava a stufarmi. Inizialmente ero intenzionato a lasciarla. Fu solo in seguito che capii che il sesso con lei mi aveva stufato perché avevamo fatto tutto. Quando non hai più stimoli perdi le motivazioni. Fu così che cominciai a cercare nuovi stimoli. Comprai libri illustrati di Kamasutra e facevamo sesso 3 volte al giorno: appena svegli, appena tornati dalla palestra e prima di andare a dormire. Durante la pausa pranzo, a lavoro, eravamo soliti parlare di sesso con i colleghi. Fu quando mi resi conto che non avevo fatto nulla che loro non avessero già provato che pensai a un modo per andare oltre. Fu dopo quel giorno che decisi di mettere la foto di lei nel mio ufficio come avevano già fatto tutti gli altri con le loro persone care. Durante le pause guardavo la sua foto e pensavo ad un modo per andare oltre.  Finché lo trovai. E l’unico rammarico fu quello di non potermene vantare con nessuno.
All’inizio lei non la prese bene; anzi, si può dire che dopo aver appurato che non scherzavo, la cosa la fece arrabbiare. Fu quando mi disse: ‹‹ Ma io sono stata tutto questo tempo con un malato di mente! ››, che le diedi uno schiaffo. Lo schiaffo fu molto più violento di quanto in realtà non volessi. Ottenni l’effetto di farla cadere malamente su un mobile e farla svenire. Fu dopo aver appurato che non avesse subìto alcuna conseguenza fisica che decisi di legarla. Dovetti uscire di casa ed andare di corsa in una ferramenta. Comprai una decina di scotch a ciambella di diverse dimensioni. Tornato a casa mi tolsi i pantaloni e provai ognuno degli scotch comprati sul mio uccello in erezione. Fu quando trovai quello che si addicesse esattamente alla mia misura che poggiai lo scotch sulla sua guancia e ne disegnai la sagoma con un pennarello. Lei cominciava a lacrimare. Per evitare che desse fastidio al mio lavoro, la bendai. Dopo aver tracciato con il pennarello due cerchi esatti della stessa grandezza dello scotch, presi un coltello da cucina e cominciai a tagliuzzare all’altezza della guancia fino ad asportarle delicatamente la carne. Per evitare che si muovesse fui costretto a somministrarle del sonnifero. Fu dopo averla medicata che le strappai i molari e i premolari da entrambi i lati. Dopo aver fatto ciò, lei si decise a capirmi. Disse che avrebbe fatto qualunque cose per me, l’importante era che continuassimo a stare insieme. Non avrebbe sopportato di essere lasciata e disse che desiderava un figlio con lo stesso fuoco negli occhi che aveva quando progettavamo di comprare la Mercedes SLK. Quando mi chiedevano dove fosse la mia ragazza, risposi che eravamo in un periodo di pausa e lei era andata via senza dirmi nulla. ‹‹ Che maleducata! ››, dicevano. Forse avevo bisogno di compassione, per questo non dissi di averla lasciata io. Alla mia ragazza andava bene la situazione: qualunque cosa facessi il giorno, la sera tornavo sempre da lei.
La sera in cui tornai dalla palestra e notai che le ferite si erano cicatrizzare, sorrisi in preda all’eccitazione. Mi calai i pantaloni, la presi per i capelli e gli feci vedere il mio cazzo duro. La tenevo per i capelli e glielo infilai attraverso le fessure delle guance, andando avanti e indietro come un ossesso, come i killer della televisione che accoltellano di continuo la propria vittima. Ma questo non potevo raccontarlo ai miei colleghi di lavoro. Non erano abbastanza coraggiosi da andare oltre. 
Conformisti di merda. 
Ora, ogni volta che la penetravo lei sorrideva con gusto: eravamo una coppia felice e tutto il resto non contava.
Fu dopo pochi giorni che mi stancai e decisi di pensare a qualcosa di nuovo. Intanto, comprai uno stereo per la macchina che chiamai “Bobby”. L’ultimo modello della Sony. Il mio Bobby. Accadde proprio mentre ascoltai una canzone da Bobby, “psycho killer” dei Talking Heads, che mi venne in mente un modo per andare oltre. 
Tornai nella ferramenta e comprai un trapano. Quando fui a casa, dissi ai miei vicini che avrei fatto un po’ di rumore perché stavo facendo alcuni lavori. 
Quando mi chiesero che fine avesse fatto la mia fidanzata, risposi che non ne avevo idea. 
Incomprensioni. 
Le persone spariscono.
Le trapanai le ossa del naso fino a ridurlo a una sola, enorme, narice sanguinolenta. Non ero sicuro che ciò non comportasse conseguenze sul suo fisico: non ho mai studiato medicina. Lei mi disse che non voleva anestetici o sonniferi perché il dolore provocato da me le sarebbe piaciuto, ma sapevo che non avrebbe resistito e glielo somministrai ugualmente.
Quando nei giorni seguenti il naso smise di sanguinare, mi sbottonai i pantaloni Calvin Klein, tirai giù i boxer di Valentino e le infilai il cazzo su per il naso sovrastando, con la mia,  la voce di David Byrne in sottofondo, “Psycho Killer, Qu'est-ce que c'est”. Non so se fosse ancora viva, so soltanto che dopo una decina di minuti depositai la mia roba bianca su per la sua narice. Prima di andare a dormire la guardavo mentre le gocciolava la mia sborra dal naso. 
Se Gericault l’avesse vista, avrebbe trovato l’ispirazione per un quadro. 
Fu proprio questo pensiero che mi fece venire un’idea geniale: riprendere con la telecamera mentre le ficcavo l’uccello su per il naso e mentre glielo sbattevo fuori dalle guance, con i denti rotti e ingialliti che le erano rimasti. Le misi una maschera per far sì che nessuno la riconoscesse; e di me, beh, si poteva scorgere solo l’uccello. Ci misi un po’ per trovare i giusti canali, ma alla fine guadagnai molti soldi. Dopo un mese cominciava a puzzare, non sapevo più cos’altro farle. Non ricordavo nemmeno come si chiamasse. 
Quando, a questo punto, mi chiedevano della “mia ragazza”, rispondevo: ‹‹ È nel mio salotto, sto pensando a come far sparire il suo corpo ››; dopo un iniziale imbarazzo, tutti ridevano accondiscendenti, inneggiando al mio sprezzante senso dell’umorismo.  Ora che ci eravamo lasciati, alcuni dei miei colleghi mi chiesero il numero di quella che era ufficialmente la mia "ex ragazza".
Andai nuovamente nella ferramenta e comprai una motosega. Mi sentivo come in quel film horror degli anni 70, dove c’è quel tizio che fa paura a tutti con la motosega. Tagliai ogni parte del suo corpo, e ogni giorno mettevo un pezzo nella busta dell’immondizia. Se devo essere sincero, non ho mai saputo in quale parte della raccolta differenziata andasse messa.
Dopo un paio di mesi che i miei colleghi non mi vedevano più alle varie cene nei locali, sembrava quasi che mi salutassero a mezza bocca, o almeno questa era la mia impressione. Non avevo una ragazza da un po’ ed ero costretto ad inventarmi avventure sessuali con donne avvenenti, rapporti a tre con donne bisessuali e sesso sfrenato in luoghi pubblici con ragazze appena maggiorenni. Nei centri commerciali non è la stessa cosa andare soli.  Avete mai visto un single all'Ikea?
Mi sentivo emarginato. 
Fu per questo che tornai nello stesso locale in cui conobbi quella che sarà la mia futura ragazza. Al tavolo 7 c’è una  ragazza alta, riccia e mora che mi guarda. Mi alzo e vado verso di lei pensando a come starebbe bene il mio uccello nelle sue fessure vuote dove ora ci sono gli occhi verdi ed intensi. 
Sono di nuovo dentro. Mi sento vivo.

sabato 19 novembre 2011

L'a mor(t)e

Aveva zampe sottili. Era debole, e per questo nessuno lo apprezzava. Non ha mai avuto un nome, né si era mai posto domande esistenziali. Essendo debole mai nessuno si curò di lui: la seduzione è roba per esseri forti.
Se fosse stato l'attore di un film, un cinefilo lo avrebbe paragonato a quei personaggi che muoiono subito e per i quali lo spettatore non prova empatia. Non avrebbe voluto morire da protagonista e provocare sentimenti infausti nei cuori di chi lo osservava, ma solo continuare a vivere. Non sapeva cosa fosse l'amore: nessuno glielo aveva mai spiegato. O forse nessuno lo aveva mai saputo.
La sua unica colpa fu quella di esser stato programmato dalla natura per succhiare sangue, ma non era un vampiro. Loro sono immortali, lui non lo era. La sua sfortuna fu quella di finire spiaccicato su un muro per mano di un Dio indifferente.
Per lui nessuna lapide.

venerdì 28 ottobre 2011

Un buco nel cervello

Sento gli echi di un fragore.
No, non è il cuore.

Sento dolore.
No, non è amore.

Presagisco violenza, forse è dipendenza.
È di un grigio incolore: fa tendenza. 

Attimi di vita, frammenti di morte; luce spenta fa rumore nel chiarore della notte.

Ora turbine e tempesta fan festa.

Tranquilli: è tutto nella mia testa.

martedì 20 settembre 2011

esperImento dAdaistA

.amorale sensazione di alienazione
                                    israinartse
                                         da
                                             un
tiepido
                                  nulla

venerdì 26 agosto 2011

Malorte



Prologo

La pista di atletica è il luogo dove avvengono i rapporti interpersonali. È un continuo seguire e farsi rincorrere. Siamo stimolati ad andare più svelti soltanto se chi inseguiamo è capace di distanziarci in maniera considerevole.

Non necessariamente un inizio

Ho messo l’annuncio dopo averci pensato per giorni. Sono emozionato e determinato. Suono al citofono e dico la parola in codice: ‹‹ Malorte ››. Sulle scale incontro una donna che guarda con sospetto la valigia, tengo lo sguardo basso e proseguo oltre. La porta è aperta e io entro.

Tutto iniziò meno di un mese fa. Mi guardavo allo specchio senza vedermi. Evitavo ogni discussione. La sera dormivo presto. La mattina andavo a lavoro.  Quando le persone mi auguravano il buongiorno, rispondevo così: ‹‹ Il nostro giorno sarà uguale a quello di ieri ››. Ogni giorno si susseguiva ed era uguale al precedente: le stesse persone sulla metro, le stesse abitudini, lo stesso buongiorno, la stessa donna e potrei continuare all’infinito. Infatti, la frase precedente non l’ho mai detta, l’ho solo pensata ogni mattina.
Prima di addormentarmi, riflettevo. Volevo prendere un giorno di ferie e andarmene da qualche parte, ma la mattina dopo mi svegliavo ed andavo a lavoro. Il week end la mia donna voleva andare fuori. Cambia il contesto non cambia il rapporto. Le chiesi: ‹‹ Secondo te, perché stiamo insieme? ››, ‹‹ Non mi ami più? ››,  rispose. Ogni donna ha provato a cambiarmi. Sei poco sicuro di te. Mi ami poco. Non hai mai fatto nulla per me. Mi ami troppo. Con lei ci stavo bene perché non voleva cambiarmi. Le piacevo così. O aveva paura di un mio cambiamento negativo? O forse...? Ho sempre preferito non chiederglielo.
Pochi giorni dopo passai una serata con i miei vecchi amici.  ‹‹ Come va il lavoro? Scopi sempre con la stessa donna? Te l’ha dato il culo? Avete intenzione di sposarvi? Di fare figli? Vista la partita ieri? ››. Si va a cena fuori, stesso posto da anni. ‹‹ Andiamo a fare un giro in centro? ››, ‹‹ No, dobbiamo tornare a casa presto, sai il lavoro, la donna che poi si preoccupa, i figli ››.
Già, i figli. Il modo che abbiamo per ottenere una parvenza di immortalità.
Nella pausa pranzo, a lavoro, Ian Curtis ripete “don’t talk away” dagli altoparlanti e nessuno lo ascolta. Un pagliaccio mi passa davanti con fare greve, come se la sua pancia fosse un peso troppo grande da sopportare. Guardo le notizie su internet e l’occhio mi cade su una donna che ha messo all’asta la sua figa. O meglio: la sua verginità. La donna, una fotomodella o qualcosa del genere, sta trattando con uno sceicco arabo. Quando gli uomini la guardano, i loro occhi diventano seni, i loro nasi diventano un ombelico e la bocca una pelosa vagina. È stato lì, per la prima volta, che mi è venuta l’idea.

Apro la porta e saluto, l’uomo mi sorride con benevolenza è un pars lateralis simile a quello di un prete dopo aver eseguito una confessione e mi fa accomodare sul divano. Gli mostro la valigia, ma lui dice che si fida. Mi chiede se sono sicuro e gli rispondo che non sono mai stato così convinto di una cosa in vita mia.

Tornando a casa da lavoro osservo le persone in metro.
La mia donna non c’è e rimango solo davanti al pc. Digito la parola Annunci su Google. Non trovo nulla di ciò che cerco.  La sera esco, mi sento osservato. Faccio l’intero raccordo anulare scrutando il cielo, le macchine ed i riflessi. Non ho alcuna meta.
Alla mia donna dico che sono uscito con un amico, non mi interessa se mi crede. Mi faccio una sega davanti a lei mentre mi racconta la sua giornata.

 ‹‹ Pensi mai alla morte? ››. Attacco il discorso senza una sigaretta in bocca per sembrare più figo.
‹‹ E tu pensi mai alla vita?  ›› mi risponde.
‹‹ Se la vita è composta da una sequenza che si ripete, che differenza c’è con la morte? ››
‹‹ La colpa è tua se è così ››
‹‹ Che ci posso fare… ››
Dopo questa mia affermazione il gatto nero prende e va via.

Forse, una fine

Il sabato sera le persone vanno in discoteca. Esigono il rumore: serve a non pensare. Io desidero il silenzio.
Ho scavalcato il cancello del cimitero. Il giorno è troppo affollato. Cammino tra le tombe e guardo le foto delle persone. Nel cimitero vedo ombre propagarsi a dismisura sulle pareti di cemento. Compresa un’ombra di qualcun altro. Mi giro e sento il rumore di passi svelti. Mi avvicino e trovo un biglietto da visita con su scritto “Malorte. Tu hai bisogno di me”. Qualcuno mi segue. Chi e soprattutto perché? Cosa significa Malorte?
A lavoro comincio ad essere sospettoso e guardare fisso i colleghi per cercare di notare qualcosa di strano. Ho la sensazione che i miei pensieri e le mie parole siano di qualcun altro, e sento di essere spiato. Il capo viene a prendere i progetti e li porta di là, oltre la porta in cui lavorano i geni dell’azienda, oltre la porta che nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di aprire, ma che quando si apre tutti provano a sbirciare non riuscendo a cogliere nulla. È lì che finisce tutto ciò che produciamo.
Ho scritto Malorte su Google. I risultati non sono incoraggianti.
La sera torno al cimitero e mi siedo sul prato in attesa di qualcuno. ‹‹ Malorteee! ››, urlo. Silenzio; poi, dal buio, esce fuori una figura scomposta. ‹‹ Sono qui ››, risponde. Ha la testa leggermente piegata e i capelli ricci che sanno di sporco, gli occhiali con lenti a forma rettangolare, il naso all’insù e un maglione grigio su jeans sgualciti.
‹‹ Cosa vuoi da me?  ››
‹‹ Io non desidero nulla ››
‹‹ Perchè mi segui allora? ››
‹‹ Non ti ho mai seguito ››
‹‹ Mi prendi per il culo? ››
‹‹ Io non so mentire. Ti ho visto spesso, la sera, al cimitero ››
‹‹ Ho avuto la sensazione di essere seguito ››
‹‹ Non ero io ››
‹‹ Ok, non eri tu. Allora cosa vuoi da me? ››
‹‹ Non mi piace ripetermi ››
‹‹ Ok, cambio la domanda. Perché avrei bisogno di te? ››
‹‹ Me lo stai chiedendo sul serio? ››
‹‹ Puoi essere più specifico ››
‹‹ Hai decisamente bisogno del mio aiuto ››
Approfittando di un mio attimo di distrazione, Malorte scompare nel buio che lo aveva partorito.

L’ultimo arrivato a lavoro ha le gambe incrociate sul tavolo e le braccia dietro la nuca,  mi guarda fisso con il sorriso stampato sulla bocca. Cerco di ignorarlo. È qui da meno di due mesi ed è già tre livelli sopra di me. Il capo arriva e gli fa i complimenti in pubblico, dice che dobbiamo prendere esempio da lui. Lui ha accesso alla porta misteriosa. Lui.
Cammino solo, di notte. Penso che vorrei trovarmi dall’altra parte del mondo; poi ci penso meglio e no, non vorrei trovarmi dall’altra parte del mondo. In strada vedo Franz Kafka seduto vicino a un falò. Mi guarda senza emettere alcuna emozione. Mi avvicino con le mani distese sui fianchi. Non parliamo. Provo ad alzare l’indice e dire qualcosa, ma non parlo. Intanto, piovono pietre.
Vado ad una mostra sul futurismo. Non mi piacciono questi quadri. Non mi piacciono questi colori. Preferisco gli impressionisti.
Faccio la fila alla posta per circa un’ora. Tutti sudano, puzzano e sono stanchi. Appena arrivo allo sportello, corro via.
A lavoro il nuovo arrivato non mi stacca gli occhi di dosso. Ride.
Stanotte ho fatto sesso con la mia donna. A lei piace chiamarlo "l'amore". È stato come guardare le lancette di un orologio illudersi di ammaestrare il tempo.
‹‹ Penso che dovremmo lasciarci ››, parla a mezza bocca la mia donna.
‹‹ Va bene ››, le rispondo.
Una settimana dopo stiamo ancora insieme.

‹‹ Cercati un altro lavoro ››
‹‹ Non funzionerebbe ››
‹‹ Ora funziona? ››
‹‹ Cercati un’altra donna ››
‹‹ Non funzionerebbe ››
Dopo questa mia affermazione il gatto nero prende e va via.

Torno al cimitero.
‹‹ Malorteee! ››
‹‹ Ci sei arrivato, finalmente ››
‹‹ Domani alle 18 ››
‹‹ Possiamo farlo anche subito ››
‹‹ No, prima devo fare una cosa ››

Sono a lavoro, ma quando non c’è nessuno: di notte. L’ufficio è vuoto. Non mi curo del rumore perché il luogo è isolato e i guardiani non sono dove dovrebbero. Scaglio con poco vigore l’ascia antincendio sulla porta misteriosa; poi lo faccio con maggior convinzione, fino a sfondarla del tutto. Finalmente so cosa c’è dietro questa porta.

‹‹ Sdraiati sul letto ››, mi ordina con fermezza Malorte. Questo è il suo nickname. L’ho conosciuto tramite annuncio. “Vendo la mia vita”, scrissi. Malorte si dimostrò interessato. Casualmente ci siamo conosciuti di persona al cimitero. Mi ha dato tempo per pensarci, non posso lamentarmi.
‹‹ A chi lasci i tuoi soldi? ››
‹‹ Metà al gatto, l’altra metà a te, come pattuito ››
‹‹ Mi fidavo. Ero solo curioso di sapere a chi avresti lasciato gli altri. Toglimi una curiosità: cosa c’era dietro la porta? ››
‹‹ Nulla ››


Un nuovo inizio

Malorte mangia le mie carni, cucina le mie mani a fuoco lento e mi racconta di quanto le dita siano gustose, soprattutto quelle sottili. Gli consiglio di non usare ketchup o salse, lui mi dice di stare tranquillo. Mentre cucina, gli racconto la storia di un pollo che è vissuto senza testa per un anno; poi gli dico di mangiarmi con calma. Lui sorride mostrando comprensione e si lecca le dita. Erano anni che non mi sentivo così felice!

giovedì 18 agosto 2011

La storia di Spazio


4 - Mi chiamo Spazio, ho 37 anni e vedo gente. Sono chiuso in una stanza, rannicchiato. 
Vedo gente.
Nella mia stanza scrivo. Nella mia stanza rido. Nella mia stanza piango.
Mi chiamo Spazio, ho 37 anni e il mio regista preferito è Polanski.
Vedo gente, sono costretto.
Entra gente nella mia stanza, mi guardano, si avvicinano, li saluto.
Leggo nei loro sguardi una sottile pietà. Pietà e terrore di avere in futuro un figlio come me.
Preferisco la gente che vedo dalla finestra, che non mi guarda.
Ho 37 anni, mi chiamo Spazio. 
Nella mia stanza esisto.
Il mondo mi incuriosisce.


2 - Mi chiamo Spazio, ho 37 anni, e la notte ho paura.

5 - Il mio scrittore preferito  non posso dirvelo.
Mi chiamo Spazio e a 27 anni appartenevo al mondo, ero parte della commedia. Ero parte della tragedia.
Mi chiamo spazio e non so se ho un cuore. Mi chiamo Spazio e la gente entra nella mia stanza per salutarmi. 
Ampi sorrisi. Finti.
Il mio regista preferito è Polanski.
Mi chiamo Spazio e sono stato come voi.
Ero un essere umano, ora sono un ragno.
Il mio lettore preferito non posso dirvelo.
Sto rannicchiato, la mattina mi portano da mangiare.

6 - Mi chiamo Spazio, mangio e dormo.
Nel pomeriggio scrivo poesie per qualcuno, apro le tende della finestra.
Forse voglio uscire.



1 - Mi rannicchio in un angolo. Mi rannicchio nell’armadio.
Sono sposato con la musica.
La gente entra e io non ci sono. Dicono che non ci sono; lo fanno da un po’ di tempo, da quando hanno capito che i sorrisi sono finti anche per loro. 
Nessuno chiede più di Spazio.
Io non voglio uscire.

3 - Mi chiamo Spazio e sono un ragno, ho otto zampe e non parlo.
Il mio regista preferito è Polanski.
A 30 anni ero come voi. Avevo una macchina e una donna, forse un cuore simile al vostro.


0 - Mi chiamo Spazio.
Lascio una lettera a nessun destinatario.
Poi attraverso la finestra.
Non ricordo precisamente il mio nome, ma credo di avere dei vetri conficcati nel collo. Le zampe non si muovono. Un liquido colorato esce dal mio corpo.

-1 - Mi chiamavo Spazio e sono stato un uomo e un ragno. Prima di essere me sono stato voi. Ma voi avete creato me. Così volevate che finisse, ora mi accettate.
Abitavo al terzo piano e scrivevo poesie per me stesso.